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Contratto domestico e società cooperative

In italia la legge 1369/60 VIETA qualsiasi forma di “subappalto” di prestazioni di lavoro.

La Legge n. 30/03 – Legge Biagi – istituisce le agenzie per il Lavoro, unici organismi accreditati ed autorizzati alla SOMMINISTRAZIONE di lavoro.
Il Decreto Legislativo n. 276/03 (Decreto attuativo della Legge Biagi) introduce un nuovo ed unitario regime di autorizzazione per i soggetti che svolgono attività di somministrazione di lavoro, intermediazione, ricerca e selezione del personale (AGENZIE PER IL LAVORO).
L’interpello n° 5/2010 del Ministero del Lavoro aveva già fortemente limitato l’utilizzo del contratto a progetto nel campo dell’assistenza domiciliare e ospedaliera. Il D.L. 201/2011 (Legge Fornero) ha ulteriormente limitato l’applicazione del lavoro a progetto ad alcune tipologie di lavoro.
Con diverse circolari esplicative ( n° 29/2012 e n° 2 e 7/2013) la DIREZIONE GENERALE DEL MINISTERO DEL LAVORO ha sottolineato come il lavoro a progetto NON SIA APPLICABILE IN AMBITO SOCIO ASSISTENZIALE.
Ne deriva che l’unico modo per una azienda (anche una cooperativa sociale), di offrire un’assistenza domiciliare, nella quale il lavoratore goda di una certa autonomia operativa nei confronti dell’assistito e della sua famiglia (cosa che per una badante è abbastanza difficile da realizzarsi) è quello di assumere il lavoratore con il proprio contratto di categoria. Diventa però gravemente anti-economico per la famiglia.
Per tutti questi motivi possiamo sostenere senza timore di essere smentiti che NESSUNA AZIENDA, ASSOCIAZIONE o COOPERATIVA (ANCHE SOCIALE) ad eccezione delle Agenzie di lavoro interinale, possa LEGALMENTE offrire servizi di assistenza domestica (BADANTE) ad un costo inferiore a 2000 euro mensili (derivanti dal costo del personale gestito in modo corretto) e per sole 40 ore settimanali.
Legalmente, un ente o azienda di qualsiasi tipo (SEMPRE PROVVISTO/A DI APPOSITA AUTORIZZAZIONE REGIONALE/MINISTERIALE) potrà affiancare la famiglia (UNICO SOGGETTO ABILITATO ALL’UTILIZZO DEL CONTRATTO COLF-BADANTI) nella ricerca e selezione del personale e nel disbrigo di tutte le pratiche burocratiche, così come potrà offrirLe una moltitudine di servizi utili ed accessori ma MAI SOSTITUIRSI AD ESSA NELL’ASSUNZIONE DELLA BADANTE.

 

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Indennità di accompagnamento: riforma possibile?

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Riformare l’indennità di accompagnamento.

La misura più importante di sostegno alla non autosufficienza ‒ ne usufruiscono un milione e mezzo di anziani ‒ nacque 30 anni fa e da allora è rimasta graniticamente uguale a se stessa. Una misura per cui si spenderanno quest’anno 14 miliardi di euro, quasi un punto di Pil. Per la popolazione anziana serve trasformare l’indennità in quella che ho chiamato una “dote di cura”. Essa supera i limiti della vecchia misura: gradua l’importo erogato in relazione a livelli diversi di non autosufficienza e incentiva l’uso delle risorse erogate per fruire di servizi (contribuendo così alla prima proposta indicata). In questa direzione occorrono due operazioni. In primo luogo bisogna distinguere due misure diverse, per le diverse condizioni e i differenti bisogni delle persone cui ci si rivolge: una riguardante i disabili giovani e adulti e una, la dote di cura appunto, gli ultra 65enni. In secondo luogo occorre trasferire la gestione di questa dall’Inps alle Regioni e gli enti locali. Scelta obbligata se si vuole legare le prestazioni monetarie alla rete dei servizi e alle risorse della comunità locale.

Leggi di più su: http://www.acli.it/le-notizie/archivio/editoria/pensiero/7380-qualificare-il-lavoro-privato-di-cura-una-missione-possibile#ixzz3ulgYaNiY [3] Fonte: www.acli.it

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ASP di Cosenza – Contributi per Disabilità Grave

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L’ASP di Cosenza offre un contributo di 600 euro mensili a persone con disabilità gravissime che necessitano di assistenza continua [6]1 [7]L’importo giornaliero dell’assegno varia a seconda della gravità della condizione di disabilità, all’intensità del carico assistenziale e all’eventuale presenza di ulteriori interventi e/o servizi socioassistenziali di rilievo sanitario che vengono contestualmente garantiti al disabile grave [8]2 [9]La soglia ISEE per l’assegno è di 34.000 euro [10]2 [11].

DOMANDA.CONTRIBUTO.NO.AUTOS.-1 [12]

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Le attività quotidiane di un Caregiver.

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Le sfide quotidiane di un caregiver
Come suggerisce il nome, un caregiver si prende cura della salute e del benessere di qualcuno che ha bisogno di aiuto per i compiti e le attività quotidiane. La persona cara che invecchia può aver bisogno di un assistente a causa di un infortunio, problemi di mobilità o di memoria, malattie o condizioni croniche che rendono difficile la sua vita di ogni giorno. In definitiva, le responsabilità di un caregiver possono variare ogni giorno, ma ci sono alcune funzioni di base che rimangono le stesse, che ci si prenda cura di un genitore anziano o di un paziente. Diamo uno sguardo più da vicino alle incombenze e alle sfide che un assistente alla persona può trovarsi ad affrontare.

Cura della salute
Monitorare la salute della persona anziana è uno dei compiti più importanti di un caregiver. Come assistente, potresti aver bisogno di far ricordare o anche di prendere appuntamenti per vari esami medici. Inoltre, spesso gli anziani devono assumere diversi farmaci e possono necessitare di aiuto per la loro assunzione. In questo caso, una lista delle medicine, o anche un qualche tipo di sistema di promemoria, sarebbe estremamente utile.

Cura personale
Le attività quotidiane di base come mangiare, fare il bagno e vestirsi possono diventare più difficili con l’età. Osservate attentamente i segnali di difficoltà e offrite delicatamente un aiuto supplementare all’anziano, se necessario. È molto importante farlo con attenzione, perché la maggior parte delle persone anziane non vuole ammettere di stare invecchiando e ha bisogno di supporto, specialmente per questo tipo di cose.

Pulizie domestiche
Mantenere una casa può essere molto difficoltoso per la persona amata, quando invecchia. L’anziano può aver bisogno di assistenza per spolverare, passare l’aspirapolvere o anche portare fuori la spazzatura. Se l’anziano vive in una casa, c’è molto lavoro legato alla manutenzione quotidiana, come il lavoro in giardino o anche lo sgombero della neve, che non sarà in grado di gestire da solo.

Cucinare
Prepararsi da mangiare può diventare complicato con l’età. Se una persona anziana vive da sola, potrebbe non avere l’energia o la motivazione per cucinare da sola; in alcuni casi, certi problemi di salute possono persino renderlo pericoloso. Eventualmente, sarebbe necessario che il caregiver aiuti nel fare la spesa e nella preparazione del cibo. Tuttavia, se questa non è un’opzione possibile, occorrerebbe considerare alternative come la consegna dei pasti, tramite assistenza sociale, per garantire che la persona amata mangi in maniera sana.

Socializzazione
Una delle parti più importanti, ma a volte trascurata, dell’assistenza agli anziani è il bisogno di socializzazione. Sentirsi soli può portare a gravi conseguenze per la salute, compresa la depressione. Quando ci si prende cura di una persona cara anziana, è necessario occuparsi non solo del suo benessere fisico, ma anche di quello mentale. Assicurati di mettere da parte un po’ di tempo per sederti e parlare con l’anziano di come si sente, di quello che ha visto al telegiornale o anche di ricordare un ricordo della sua gioventù.

Essere un assistente alla persona è un compito estremamente responsabile e difficile che molti sottovalutano. Che tu assista un parente o che tu sia un caregiver professionista, le sfide che devi affrontare sono molte. Speriamo che troviate la nostra piattaforma utile per poterle affrontare al meglio.

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Assumere badante senza permesso di soggiorno

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Riportiamo  importante approfondimento  a cura della redazione di: https://www.dequo.it –  circa il lavoro in nero di colf e badanti extracomunitarie. 

Capita spesso che in Italia determinati mestieri, come quello della colf o della badante, siano praticati da cittadini extracomunitari, che non hanno il permesso di soggiorno. In questi casi, la persona in questione non può essere assunta in modo regolare e non può dunque pagare tasse e contributi proprio in mancanza di tale documento.

Cosa succede nei casi in cui si assume una badante senza permesso di soggiorno? Ci sono conseguenze anche qualora si fosse in buona fede e, dunque, ignari dell’assenza di documenti per soggiornare nel nostro Paese da parte della persona che è stata assunta?

Vediamo di seguito quali sono le conseguenze che si rischiano e le possibilità esistenti di regolarizzare la propria badante attraverso il Decreto Flussi. Analizziamo nel dettaglio due ipotesi differenti:

Assumere una badante in nero: le tutele per il lavoratore

In base a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, una badante che lavora in nero ha la possibilità di eseguire delle riprese video e audio della casa nella quale lavora. L’obiettivo è proprio quello di dimostrare che si sta lavorando in nero, senza così commettere un reato di violazione della privacy e del domicilio di un’altra persona.

Si potrà così aprire una vertenza lavorativa, in seguito alla quale il datore di lavoro sarà tenuto a pagare:

Ci sono, ovviamente, delle limitazioni nel momento in cui la badante decide di filmarsi mentre lavora in nero nella casa di qualcun altro:

  1. non può, infatti, lasciare la telecamera e spostarsi da un’altra parte;
  2. non ha il diritto di registrare le conversazioni di altre persone se si svolgono in sua assenza: deve quindi essere sempre presente nelle riprese.

Nel caso in cui si venisse scoperti a riprendere le conservazioni private fra due coniugi o scene di vita privata, si rischierebbe una denuncia per interferenze nella vita privata altrui.

La badante che lavora in nero ha il diritto di denunciare il soggetto per cui lavora all’Ispettorato del lavoro o in Tribunale anche in assenza di prove video o audio. In questo caso le sue dichiarazioni non bastano come dimostrazione del fatto alla base della denuncia, ma costituiscono prova le testimonianze di altre persone che hanno assistito allo svolgimento della sua attività in nero.

Assumere badante in nero: le conseguenze

Quali sono, a questo punto, le conseguenze legali che ricadono sulla persona che fa lavorare qualcun altro in nero? Come anticipato, devono prima di tutto essere versate tutte le somme che il denunciante avrebbe ricevuto in caso di assunzione regolare: per fare un esempio, l’omissione di contributi previdenziali prevede il versamento di un importo raddoppiato.

Tra i rischi previsti ci sono:

Per l’omesso pagamento dei contributi previdenziali sono previste sanzioni pari a una cifra compresa tra il 30% e il 60% dei contributi evasi su base annua. La sanzione amministrativa applicabile anche su una sola giornata di lavoro in nero è pari a 3.000 euro.

Assumere badante senza permesso di soggiorno: cosa si rischia

Il problema principale nel caso di assunzione di una badante senza permesso di soggiorno è proprio dovuto al suo essere irregolare: mentre nel caso analizzato in precedenza, si è puniti con delle sanzioni di tipo civile o amministrativo, chiunque assuma una persona in nero senza permesso di soggiorno sta commettendo un reato.

Si ricorda che chi proviene dai Paesi dell’Unione europea, o dalla Svizzera, non ha la necessità di richiedere il permesso di soggiorno per poter lavorare in Italia perché saranno applicabili le stesse regole di assunzione previste per i cittadini italiani.

Ai sensi dei Testo Unico per l’immigrazione, assumere una badante senza permesso di soggiorno, o qualsiasi altra tipologia di lavoratore, comporta:

A questo punto è interessante indagare le possibilità attraverso la quali si può aiutare la propria badante a ottenere un permesso di soggiorno per “casi speciali”, che viene rilasciato dal Questore dopo l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica.

Come si assume una badante straniera senza permesso di soggiorno?

Ci sono due casistiche differenti:

  1. nel caso di una badante straniera che risieda già in Italia, dovrà essere presentato il permesso di soggiorno valido per lo svolgimento di un’attività lavorativa;
  2. a seconda ipotesi è quella nella quale la badante extracomunitaria non risieda ancora in Italia: il soggetto che ha intenzione di assumerla dovrà fare richiesta di un permesso di soggiorno valido per motivi di lavoro.

Tale richiesta:

Dopo la stipula di tale contratto, sarà rilasciato il permesso di soggiorno per lavoro subordinato e un accordo di integrazione fra lo Stato e il lavoratore straniero.

Le badanti potranno essere assunte con due tipologie di contratto:

  1. il Contratto collettivo nazionale Colf e Badanti;
  2. il Contratto collettivo nazionale Lavoro domestico.

Nel contratto di lavoro dovranno essere riportate le seguenti informazioni:

In alternativa, se le ore di lavoro svolte da una badante e dagli altri collaboratori domestici non superino le 280 ore all’anno, possono essere pagati anche tramite il libretto famiglia, uno strumento che permette di pagare le prestazioni occasionali.

Cos’è il decreto flussi 2020

Il decreto flussi viene emanato ogni anno con la funzione di stabilire il numero massimo di cittadini stranieri che possono entrare in Italia per svolgere attività di lavoro subordinato non stagionale e di lavoro autonomo. Per i lavoratori stagionali è previsto un decreto flussi a parte.

Il datore di lavoro che ha intenzione di assumere una badante extracomunitaria che non risieda ancora in Italia deve rifarsi al decreto flusso dell’anno in corso, che viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Al suo interno sono contenute anche le date entro le quali deve essere presentata la richiesta di nullaosta.

Il visto di ingresso rivolto ai lavoratori extracomunitari è di tipo D ed è valido per soggiorni superiore a 90 giorni. Entro 8 giorni dal suo arrivo in Italia, il lavoratore extracomunitario dovrà recarsi presso lo Sportello Unico per l’immigrazione per compilare, assieme al datore di lavoro, la richiesta del permesso di soggiorno per lavoro subordinato e per sottoscrivere il contratto di soggiorno.

Nel caso di lavoro autonomo, la richiesta di autorizzazione potrà essere presentata senza la presenza del datore di lavoro, presso la Questura competente: entro 20 giorni, la Questura dovrà analizzare i documenti presentati e rilasciare il nullaosta al lavoratore. In seguito:

Badante senza permesso di soggiorno – Domande frequenti

Cosa rischio se assumo una badante senza permesso di soggiorno?

L’assunzione di una badante senza permesso di soggiorno è reato: viene punito con una multa di 5. 000 euro e con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

Cosa rischio se assumo una badante in nero?

Assumere una bandate o una colf in nero comporta il rischio di essere denunciati dal lavoratore e tutta una serie di sanzioni civili e amministrative:

È possibile regolarizzare una badante per assumerla?

Le badanti extracomunitarie che non risiedono ancora in Italia possono essere regolarizzate attraverso la richiesta di nullaosta inviata dal datore di lavoro allo Sportello Unico per l’immigrazione, che permette di ottenere un permesso di soggiorno valido per motivi di lavoro.

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Alzheimer e demenza: Dimensioni, costi e novità

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Il 21 settembre ricorre la giornata mondiale dell’Alzheimer (Alzheimer’s Disease), una sindrome neurodegenerativa, la cui incidenza è in aumento e il cui decorso post-diagnosi può protrarsi fino a dieci anni, secondo l’Istituto superire di sanità, e che ha un rilevante impatto anche economico e sociale sul sistema sanitario. Posto che la ricerca scientifica necessita di ulteriori approfondimenti per una conoscenza approfondita di questo fenomeno ancora da debellare, vi sono degli accorgimenti per prevenire il problema e lenire la sintomatologia, nonché progetti palliativi innovativi.

 

Le dimensioni e le conseguenze del fenomeno

Nel mondo le persone colpite da demenza sono 50 milioni, ogni 3 secondo se ne registra un nuovo caso e si stima che, entro il 2050, ve ne saranno 152 milioni (ADI, 2018). In Italia, tra i 25 principali gruppi di cause di morte, le sindromi di demenza e di Alzheimer sono passate, in 10 anni, dalla nona alla sesta posizione in graduatoria e il numero di malati è raddoppiato da 14.685 nel 2003 e 26.600 nel 2014. (Istat, 2017).

L’incremento citato rispecchia il mutamento e l’invecchiamento della struttura per età della popolazione. Si tratta infatti di un fenomeno positivamente correlato con l’aumento dell’aspettativa di vita, posto che solo la sindrome dell’Alzheimer colpisce da terzo alla metà delle persone di oltre 85 anni (Accademie Nazionali, 2017). In merito, poi, dato che i decessi in età anziana conseguono a quadri patologici complessi, lo studio delle relazioni tra le cause menzionate nei certificati di morte sta superando i limiti dello studio della mortalità basato sulla sola causa iniziale e mostra come le malattie mentali e del sistema nervoso sono, in effetti, un sub-sistema molto denso assieme alle condizioni di immobilità e confinamento e alle conseguenti malnutrizione, decubito e soffocamento da elementi esterni (Egidi et al., 2018). Chi è affetto da Alzheimer non è difatti in grado di autogestirsi né di auto tutelarsi e, quando non è nemmeno in grado di esprimere esigenze fondamentali come la fame, la sete e il freddo o il caldo, in assenza di prestazioni diagnostiche e terapeutiche è destinato a morire in 5-6 giorni (Santanera, 2018).

 

Le proposte prioritarie sul tema riguardano la comprensione dei processi molecolari, genetici e cellulari alla base della patologia, l’accesso ai trial clinici e ai test cognitivi per diagnosi precoci e il miglioramento dei programmi sociali e tecnologici integrativi alle cure mediche (Accademie Nazionali, op. cit.). Una mappatura delle Strutture sanitarie residenziali (SR) pubbliche o convenzionate presenti in Italia per la cura e l’assistenza delle demenze ne registra 729, con un’ampia differenziazione territoriale che ne colloca il 51% al Nord, il 35% al Centro e il 14% al Sud e nelle Isole (Istituto Superiore di Sanità, 2017). Tra gli studi osservazionali attivati nei centri citati, vi è ad esempio il progetto Interceptor, che, lanciato alla fine del 2017 per una durata di 3 anni, coinvolge 400 pazienti di età compresa tra 50 e 85 anni, allo scopo di valutare diversi marcatori (come test neuropsicologici, dosaggio delle proteine, tomografia ad emissione di positroni, analisi genetica, tracciato elettroencefalografico, risonanza magnetica volumetrca) e stabilire così i più specifici a predire la conversione del lieve declino cognitivo in Alzheimer.

 

Complessivamente, l’affinamento scientifico delle capacità diagnostiche e terapeutiche, la maggiore efficienza dell’organizzazione sanitaria, una accresciuta cultura della salute con maggiore prevenzione e controllo e stili di vita complessivamente più sani comportano che la frontiera della morbosità venga spostata in avanti (Filippi, 2014), confermando la tesi della Compression of Morbidy (Fries, 2003). Arricchire quindi la conoscenza sul tema offre la possibilità di migliorare le condizioni di vita degli anziani agendo sull’insieme di elementi che ne peggiorano invece la qualità e mappare gli elementi connessi alla sindrome consente di definire più correttamente l’orientamento da dare al sistema di cura e di assistenza nazionale.

 

I costi connessi alla sindrome

Tenuto conto del tema della sostenibilità del SSN, parlando di patologie, una parte del discorso va rivolta anche necessariamente alla definizione dei costi in servizi di cura e di assistenza, che sono assunti dall’assistito, dalla famiglia e dalla collettività e possono essere diretti, se inerenti le spese direttamente monetizzabili sostenute per l’acquisto di beni o servizi, oppure indiretti, in termini di perdita di risorse altrimenti acquistabili. Il costo medio annuo per paziente (CMAP) stimato, comprensivo dei costi detti, è paria 70.587 euro, di cui il 27% (18.941 euro) afferisce ai costi diretti e il 73% (51.645 euro) ai costi indiretti.

Tra i costi diretti, la quota più significativa è rappresentata da quelli legati all’assistenza informale (60,1%) totalmente a carico delle famiglie. Le spese sanitarie legate agli accessi e ai ricoveri in strutture ospedaliere, a carico del SSN, rappresentano il 5,1%, mentre le spese per l’accesso ai servizi socio-sanitari costituiscono il 19,1%  dei costi e sono articolate con quote più consistenti (70% e oltre) a carico del SSN per l’assistenza formale; le attività ambulatoriali (visite, analisi e attrezzature e ausili sanitari) rappresentano il 7,7% del totale dei costi diretti e risultano principalmente a carico del SSN (78,3%); le spese per i farmaci (3,9% del totale) se specifiche vanno distinte tra quelle relative a farmaci specifici per Alzheimer, ricadono principalmente sul SSN altrimenti sono ripartite tra famiglie e SSN. Gli esborsi per le modifiche dell’abitazione sono sostanzialmente a carico delle famiglie e rappresentano il 3,1% dei costi diretti. I costi indiretti sono per definizione a carico della collettività e vengono stimati monetizzando gli oneri di assistenza che pesano sul caregiver, che rappresentano il 97% circa del totale dei costi indiretti, a cui si aggiunge anche la piccola quota rappresentata dai mancati redditi di lavoro dei pazienti (Fondazione Censis, 2016).

I dati riportati restituiscono l’elevata onerosità correlata alla sindrome in tema, economica, ma anche psicologica, che grava sulle famiglie per far fronte alle esigenze del congiunto colpito dall’Alzheimer e che rende urgente l’adeguamento e il potenziamento degli interventi e dell’offerta di servizi.

 

Prevenzione e misure palliative

Dal punto di vista della prevenzione, utili indicazioni operative sono presenti nel piano d’azione globale adottato nel 2017 dall’OMS, secondo cui i rischi che le politiche sanitarie dovrebbero prendere in considerazione come prioritari sono: ipertensione arteriosa, disturbi cardiocircolatori, sindromi metaboliche, alcoolismo, tabagismo, depressione, insufficiente attività fisica, isolamento sociale, diminuzione e perdita dell’udito e basso livello culturale. Un recente volume di ricerca pubblicato da Raffaello Cortina Editore, La mente fragile. L’enigma dell’Alzheimer di Arnaldo Benini, in modo scientificamente accurato ma anche accessibile al grande pubblico, aiuta a comprendere il fenomeno dell’invecchiamento mentale e della demenza senile e promuove la prevenzione generica come particolarmente efficace a prevenire l’Alzheimer.

 

Quando invece la patologia si manifesta e la prevenzione non ha più presa, invece, come si può intervenire?

In questi casi, posto che, ad oggi, non vi sono trattamenti che arrestino o rallentino il decorso della sindrome demenziale, sembrano sortire un effetto positivo le misure palliative, secondo il motto to care when there is no cure (prendersi cura quando non si può guarire), verso le quali le recenti pubblicazioni del settore stanno riservando grande attenzione. Infatti, i “provvedimenti palliativi [..] possono essere attuati in famiglia o in strutture protette, a seconda dello stato del paziente nonché delle condizioni familiari ed economiche. Le misure palliative non sono cure, ma aiutano gli ammalati a vivere meglio e a utilizzare il più a lungo possibile le capacità mentali e fisiche residue. Il principio dell’assistenza palliativa è quello di lasciar vivere la persona come il cervello alterato le permette, senza pretendere quel che non può più fare o capire e senza ferirne la dignità” (Benini, 2018, pp. 83-84).

 

Villaggi e quartieri dedicati

Per promuovere la normalità nella vita delle persone affette da Alzheimer, sono in atto sperimentazioni di quartieri abitati da pazienti e operatori. Hogewey in Olanda ne è un esempio a livello europeo dal 1993 e, anche in Italia, vi sono dei primi casi, come il Villaggio dell’Alzheimer della Fondazione Roma che, nel quartiere Buffalotta, ospita gratuitamente 100 malati in 14 case riunite attorno ad una piazza e collegate a servizi di uso quotidiano, tra cui un bar e un minimercato.

Anche in Lombardia sono stati attivati interventi di questo tipo, come il Paese Ritrovato, inaugurato da pochi mesi dalla Cooperativa La Meridiana di Monza. Si tratta di un’area di 14.000 mq che ospita 64 pazienti residenti in 8 appartamenti, con camere singole ma anche spazi di soggiorno e cucina comuni, dove è possibile mantenere contatti esterni e forme di socialità, e bagni assistiti. Il luogo, non sanitario ma auto-sufficiente, grazie alla presenza di negozi, consente ai degenti di muoversi in modo protetto ma autonomo.

Complessivamente questa sperimentazione è molto promettente e si basa sulle competenze e sulle capacità progettuali degli stakeholder locali e viene monitorato da una rete di istituzioni territoriali, tra cui il Politecnico di Milano e l’Università LIUC di Castellanza, che hanno contribuito alla progettazione degli arredi e delle tecnologie assistive, nonché dei modelli di misurazione dell’efficacia terapeutica (Pantrini, 2017).

 

Alcune considerazioni

La demenza senile è una sindrome grave, progressiva e inabilitante, che riduce la qualità della vita dei pazienti, il cui numero è in crescita a seguito dell’aumento dell’attesa di vita, e comporta dolore e difficoltà per i familiari che si trovano loro malgrado ad averne esperienza diretta. Al di là dell’incidenza genetica, si tratta di un fenomeno, per un certo verso, evitabile, alla luce delle evidenze che il modo in cui certi geni agiscono dipende dall’ambiente circostante, per cui la prevenzione che sembra particolarmente efficace è, di fatto, quella generica. Un certo declino delle capacità cognitive associato all’avanzare dell’età è normale, ma può essere arrestato con correzioni nello stile di vita, evitando allarmismi ma rapportandosi con i rischi, in modo complementare e fattivo, prima che la malattia insorga. A diagnosi avvenuta, ugualmente, soccorrono interventi integrati che pongano la persona fragile all’interno di un luogo protetto in cui possa esprimersi, ritrovando una certa quotidianità e riscoprendo gli effetti benefici delle relazioni. L’auspicio è quindi che, alle prime sperimentazioni di habitat terapeutici innovativi come quello descritto nell’articolo, ne seguano altre al fine di definire buone pratiche applicabili anche in Italia.

Fonte:https://welforum.it/

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Lavoro e Disabilità : Nuove iniziative

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AGENZIA NAZIONALE DISABILITA’ E LAVORO

ANDeL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) è una agenzia di servizi non profit, nata a fine marzo del 2021, su iniziativa di alcune famiglie direttamente interessate e di un esperto del collocamento delle persone con disabilità.

La spinta per costituirla scaturisce dal fallimento del sistema di collocamento pubblico. Fallimento del resto riscontrato dall’Europa, dall’ONU e ultimamente anche dal Ministro del Lavoro. I dati sono impietosi e il malcontento diffuso. La situazione è aggravata dall’indifferenza delle classi politiche che si sono succedute negli ultimi dieci anni: emblematico il non aver ricordato l’anniversario dei venti anni della legge 68/1999 e del collocamento mirato.

Il tutto si accompagna al disorientamento e alla conseguente  incapacità delle parti sociali di proporre soluzioni. La crisi economica, la pandemia e la rivoluzione tecnologica in atto, non potranno che complicare la situazione. Un quadro socio economico che impone un rinnovato protagonismo delle persone disabili, delle famiglie, e del terzo settore, per giungere ad un nuovo patto sociale che non marginalizzi ed escluda nessuno.

 

Qual è la missione di ANDEL ?

Scopo dell’agenzia è quello di promuovere la cultura dell’inclusione lavorativa delle persone disabili, agendo in una logica di sussidiarietà e mutuo aiuto. In particolare vogliamo sostenere le aziende, gli enti pubblici, le cooperative sociali, le imprese pubbliche e private, le associazioni dei disabili, le associazioni sindacali e imprenditoriali, la scuola, l’università, i servizi per il collocamento pubblici, privati e del privato sociale, al fine di favorire l’inclusione lavorativa. ANDeL vuole promuovere gli inserimenti lavorativi sostenendo chi già opera nel campo, cercando di migliorare e rendere efficace il loro modo di agire.

L’agenzia, in coerenza con la Strategia europea sui diritti delle persone con disabilità 2021-2030, vuole un aumento numerico e qualitativo dei posti di lavoro occupati da persone con disabilità, un maggior coinvolgimento delle famiglie e dei soggetti privati e del privato sociale, una riforma del sistema di collocamento e una rivisitazione della legge 68/1999.

 

L’agenzia si pone tre obiettivi strategici. Cominciamo dal primo e forse più importante, iI coinvolgimento delle persone disabili. Come pensate di procedere?

ANDeL è nata per promuovere l’inclusione lavorativa delle persone disabili, con una particolare attenzione ai soggetti più deboli. Le persone disabili verranno avvicinate attraverso le associazioni che li rappresentano e individualmente attraverso  convegni, eventi, Webinar, i siti web dedicati, i social, i mass-media, gli annunci e le collaborazioni con i servizi di collocamento e inserimento al lavoro. Ma sarà il passa parola a richiamare la loro attenzione e a far comprendere il valore e l’utilità di ANDeL.

Abbiamo cominciato con l’apertura di uno sportello telefonico a cui tutti possono porre richieste di informazioni, consigli, ecc. in tema di lavoro. Disponiamo di un primo gruppo di operatori in grado di fare una valutazione del potenziale lavorativo, e curare l’orientamento al lavoro. Grazie a collaborazioni esterne siamo in grado di offrire percorsi formativi personalizzati e gratuiti e percorsi di accompagnamento al lavoro. Sosteniamo le aziende in cerca di lavoratori disabili ospitando gli annunci sul nostro sito e su quello dei nostri partner. Le offerte di servizi alle imprese e ai disabili cresceranno con il passare del tempo.

 

Curerete voi, concretamente, anche l’inserimento lavorativo?

I disabili disoccupati, inoccupati o in cerca di un nuovo lavoro, che si iscrivono ad ANDeL vengono contattati per un colloquio. Viene quindi redatto un Progetto personalizzato di accompagnamento al lavoro. Il processo di collocamento non prevede la presa in carico della persona e la successiva ricerca  di un lavoro; questa metodologia, utilizzata da tutti,  è una delle cause che hanno portato al fallimento l’intero sistema di servizi per il collocamento e per l’inserimento lavorativo. ANDeL opera attraverso l’inversione del paradigma tradizionale: “non dal disabile all’azienda, ma dall’azienda al disabile”.

L’esperienza ci ha insegnato che le opportunità di lavoro, per qualsiasi categoria di disabilità, nascono dal rapporto diretto dei servizi per il lavoro con il mondo del lavoro. Il supporto alle aziende nella redazione del “Progetto personalizzato per l’assolvimento degli obblighi” è il punto di partenza per qualsiasi azione inclusiva. I singoli percorsi di accompagnamento al lavoro continueranno ad essere realizzati dai servizi già attivi nelle varie province. Mi ripeto: ANDeL non vuole sostituire o competere con chi già opera sul territorio, ma aiutarlo a migliorare la propria attività.

 

Il secondo obiettivo riguarda le aziende. Come agite nei loro confronti ? Quali servizi erogate?

Abbiamo attivato un secondo sportello telefonico a cui possono accedere tutte le aziende per  informazioni e consulenze gratuite di primo livello. Nel prossimo futuro pubblicheremo una newsletter per le aziende, per i disabili, e per tutti i soggetti sociali  interessati all’inclusione lavorativa. Attualmente stiamo collaborando con aziende di grandi dimensioni, affrontando il problema dell’assolvimento degli obblighi in modo personalizzato e soprattutto creativo. In attesa di poter disporre di personale adeguato per supportare le aziende nell’assolvimento degli obblighi previsti dalla legge 68/1999, ci avvaliamo di servizi che operano in partnerschip. Abbiamo inoltre coniato una figura professionale ad hoc, il Disability Job Supporter. Una figura indispensabile per migliorare il rapporto fra i disabili, le aziende e i servizi.  Sono in corso confronti con alcune università per promuovere master specifici. A breve partirà un master di primo livello promosso dall’università on line E-Campus.

 

Come si articola il ruolo e le competenze del Disability Job Supporter, differenti (a quanto si può intuire) da quelle del Disability Manager, un profilo professionale riconosciuto da alcune regioni e sul quale puntano diversi corsi di alta formazione?

Nei paesi di frontiera esistono i passeur, coloro che aiutano i clandestini a passare il confine. Per fare questo devono conoscere: il percorso, le abitudini delle guardie di  frontiera, le risorse psico-fisiche delle persone che accompagnano, e i problemi che possono insorgere lungo il cammino. Dal passeur dipende la possibilità di oltrepassare il confine. Anche la disabilità necessita di passeur esperti per entrare nel mondo del lavoro. I passeur della disabilità dovrebbero essere figure professionali che conoscono i percorsi di accesso al lavoro, le potenzialità di chi devono accompagnare; nonché i tempi, i modi, le regole che governano il mercato e il mondo del lavoro, e le problematicità perennemente in agguato. Queste competenze devono appartenere al Disability Job Supporter: una figura professionale in grado di seguire tutto il processo inclusivo, presente in tutti i servizi per il lavoro. A questa figura compete la valutazione del potenziale occupazionale, l’orientamento, l’accompagnamento al lavoro, l’inserimento, la redazione progetto di assolvimento degli obblighi per l’azienda e le necessarie competenze consulenziali. Il Disability Job Supporter possiede una preparazione complessiva, conoscenze e competenze psicologiche, pedagogiche, contrattuali che gli consentono di seguire tutta la filiera dell’inclusione e di operare con efficacia presso i Centri per l’Impiego, il Collocamento mirato, i SIL, la formazione professionale, la scuola, l’Università, le cooperative sociali, le associazioni imprenditoriali, le associazioni dei disabili, le agenzie per il lavoro e i servizi sociali e sociosanitari.

 

Qual è il rapporto con il sistema di collocamento pubblico?

ANDeL affonda le sue radici nel sistema del collocamento pubblico. Ne conosce l’organizzazione, il potenziale, i limiti e i bisogni. Il sistema del collocamento italiano è articolato su tre livelli: quello centrale rappresentato dal Ministero del lavoro e dall’ANPAL, quello regionale e quello provinciale. A livello nazionale stiamo intervenendo sul piano normativo attraverso: interrogazioni parlamentari, emendamenti, proposte di legge e progetti per il Recovery Fund. Per ciò che riguarda l’ANPAL abbiamo dichiarato la nostra disponibilità. A livello regionale, a cui compete il mercato del lavoro, ci stiamo attivando per diffondere buone pratiche, sperimentazioni, progettualità. Mentre a livello provinciale offriamo la formazione del personale e proposte organizzative per rendere più efficace l’organizzazione dei servizi, e per migliorare il rapporto con le aziende.

Siamo un’agenzia non profit e vogliamo migliorare il sistema dell’inclusione lavorativa delle persone disabili. Alcune collaborazioni con i servizi pubblici sono già in essere. Sono stato un loro collega per tantissimi anni, pertanto è per me naturale avere rapporti di collaborazione. In particolare stiamo cercando di diffondere l’uso di buone prassi a favore dei soggetti più deboli, curiamo la formazione del personale, promuoviamo la legge 68/1999 fra le aziende soggette agli obblighi. La newsletter appena lanciata avrà uno spazio dedicato ai servizi per il collocamento mirato. La nostra disponibilità è totale e le possibilità di collaborazione sono tante.

 

Com’è il rapporto con il tessuto imprenditoriale ?

ANDeL dispone di tecnici interni ed esterni, con esperienza pluridecennale nel settore, e le buone relazioni instaurate in passato stanno facilitando il rapporto con il tessuto imprenditoriale. Stiamo inoltre coinvolgendo le aziende attraverso webinar a tema, intervenendo ad eventi come il Diversity Day [26], organizzando percorsi formativi gratuiti per la gestione degli obblighi di legge e per la gestione della disabilità in azienda. Il nostro pragmatismo, l’innovativa modalità di approccio agli obblighi previsti dalla legge 68/1999, l’uso creativo di buone prassi, la comprensione dei bisogni delle imprese semplificano il rapporto. In futuro sarà il passa parola lo strumento di marketing più efficace.

 

Il terzo obiettivo riguarda la promozione della cultura inclusiva. Cosa pensate di realizzare?

Questo è l’obiettivo più ambizioso e realizzabile solo a lungo termine. Per cambiare la cultura, è necessario disporre di un pensiero forte, canali informativi ed educativi che consentano anche  di mettere a nudo le contraddizioni, le false verità, i luoghi comuni ecc. che avvolgono il sistema del collocamento. Ci stiamo attrezzando, abbiamo creato un sito [27] e un numero zero della newsletter, pubblicato articoli, organizzato webinar, corsi, interventi in momenti pubblici. Stiamo creando collaborazioni e partnerschip con università, centri di ricerca, associazioni. Vogliamo far uscire l’inclusione lavorativa dal limbo in cui è stata relegata negli ultimi anni. La politica, le istituzioni, i mass media, e la stessa opinione pubblica, devono ritornare ad occuparsi di questo tema.

Andel intende collaborare strettamente con l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. È nostra intenzione proporre una candidatura nella Commissione che si occupa di lavoro per le persone con disabilità e dell’attuazione della Legge 68/1999. Pensiamo di poter dare un valido contributo specialmente nella fase di sviluppo del PNRR.

 

A proposito di PNRR, a quali missioni e obiettivi operativi intendete far riferimento per sviluppare l’attività e quindi la collaborazione con i servizi del collocamento mirato?

A  seguito di una raccolta di firme e adesioni, abbiamo richiesto di ritagliare dal PNRR un finanziamento di 500 milioni di euro a favore al terzo settore, al fine di renderlo  coprotagonista del collocamento dei disabili. Le prime affermazioni pubbliche del Ministro fanno intendere la volontà di potenziare l’attuale sistema di collocamento. Avremo un fiume di risorse economiche e di personale che verrà assegnato alle Regioni e quindi ai Centri per l’Impiego. Se ci fosse solo questo, temo che non vedremo dei grandi miglioramenti. Cercheremo di dare indicazioni utili e soprattutto efficaci e concrete al Ministero, all’ANPAL e alle regioni. Speriamo di essere ascoltati. Altrimenti se tutto si svolgerà secondo i primi pronunciamenti, mi permetto di dire che “non si può avere un abito nuovo rappezzando quello vecchio”.

 

Come pensate di agire a livello territoriale? Quali tempistiche vi siete proposti?

La presenza territoriale di ANDeL dipenderà dalle capacità di promuovere una rete di collaborazioni con tutti gli stakeholder della disabilità/lavoro. Questa attività è già in essere in diverse province, sono infatti numerose le associazioni, cooperative sociali ecc. che ci stanno contattando.

L’attesa e il  bisogno sociale di un soggetto che si dedicasse unicamente all’inclusione lavorativa dei disabili (tutti non solo dei “disabili-abili”), ci ha imposto una accelerazione iniziale costringendoci ad essere immediatamente operativi. Ora stiamo curando l’organizzazione e il reclutamento del personale necessario. Facciamo quello che possiamo e nel frattempo ci stiamo attrezzando. Stiamo incontrando molte disponibilità e collaborazioni che ci  consentiranno di accelerare il cammino.

Stiamo sostenendo e co-gestendo alcuni progetti sparsi sul territorio nazionale. Abbiamo in corso una serie di webinar con aziende e con le associazioni delle persone disabili. Stiamo strutturando la banca dati degli iscritti. Stiamo organizzando eventi in collaborazione con le associazioni. Il prossimo futuro ci vedrà inoltre impegnati nella raccolta e diffusione delle buone prassi su tutti i territori regionali. Amplieremo inoltre la rete di collaborazioni.

Stiamo incontrando molti soggetti sociali interessati. Purtroppo non abbiamo avuto modo di incontrarci con SIDIMA Società Italiana Disability Manager, FEDMAN Federazione Disability Management e FAND Federazione tra le associazioni nazionali dei disabili; con FISH Federazione italiana per il superamento dell’handicap dobbiamo riprendere il confronto dopo la pausa estiva. Siamo nati per aiutare tutti quelli che operano nel campo della disabilità e lavoro. Non abbiamo problemi di concorrenza e rivalità, non vogliamo sostituirci a nessuno. Speriamo pertanto di poter avere utili rapporti anche con queste organizzazioni.

Fonte: https://welforum.it

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Lunga-assistenza per anziani autosufficienti

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Livelli essenziali di salute e percorsi assistenziali a domicilio

Il Servizio sanitario nazionale (SSN), come previsto dall’Art. 22 del DPCM 12 gennaio 2017 che definisce e aggiorna i livelli essenziali di assistenza, garantisce alle persone non autosufficienti o in condizioni di fragilità, con patologie in  atto o esiti delle stesse, percorsi assistenziali a  domicilio  costituiti dall’insieme  organizzato  di  trattamenti   medici,   riabilitativi, infermieristici e di aiuto infermieristico necessari per stabilizzare il quadro clinico, limitare il declino  funzionale e migliorare la qualità della vita.

Le cure mirano a stabilizzare il quadro clinico, a limitare il declino funzionale e a migliorare la qualità della vita della persona nel proprio ambiente familiare, evitando per quanto possibile, il ricorso al ricovero ospedaliero o in una struttura residenziale. In ogni caso l’ASL assicura la continuità tra l’assistenza ospedaliera e l’assistenza territoriale a domicilio.

Il suddetto articolo prevede inoltre una suddivisione delle cure domiciliari per livelli di complessità assistenziale:

 

Le cure domiciliari sono integrate da prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare professionale alla persona (ad es. cura e igiene della persona, aiuto nella deambulazione, supervisione assunzione terapia farmacologica). Tali prestazioni sono interamente a carico del SSN per i primi trenta giorni dopo la dimissione ospedaliera protetta, e per una quota pari al 50 per cento nei giorni successivi, il restante 50% è a carico del Comune che ha facoltà di chiedere all’utente di coprire con risorse proprie parte della quota (su base ISEE), secondo quanto previsto dalla normativa regionale e comunale.

Tuttavia, gli interventi di assistenza tutelare sono purtroppo poco precisati come livello essenziale da garantire, e sono messi in atto con modalità estremamente diverse nei vari territori.

 

Le cure domiciliari, come risposta ai bisogni delle persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità, dovrebbero integrarsi con  le prestazioni di  assistenza  sociale  e  di  supporto  alla  famiglia, secondo quanto previsto dal decreto del Presidente del Consiglio  dei ministri 14 febbraio 2001 recante «Atto di indirizzo e  coordinamento sull’integrazione sociosanitaria». Il bisogno clinico, funzionale e sociale è accertato attraverso idonei strumenti di valutazione multidimensionale che consentano la presa in carico della persona e la definizione del  «Progetto di assistenza individuale» (PAI) sociosanitario integrato.

 

Gli interventi domiciliari di lungassistenza agli anziani non autosufficienti nella Città di Torino. Modalità organizzative

Gli interventi domiciliari di lungassistenza (LA) normati dalla Regione Piemonte con DGR n. 39−11190 del 6/04/2009, rappresentano l’attuazione locale dell’integrazione sociosanitaria per il mantenimento a domicilio delle persone anziane non autosufficienti. La LA può integrarsi con il sostegno delle Cure domiciliari più prettamente sanitarie: di base (ADP) o Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) di I°, II°, III° livello.

La richiesta della LA è subordinata alla presentazione della domanda di valutazione multidimensionale all’Unità di Valutazione Geriatrica (UVG) competente per il Distretto sanitario dell’ASL di residenza da parte dell’anziano. La richiesta dell’anziano deve essere accompagnata dall’impegnativa del Medico di Medicina Generale comprensiva di una Scheda di sintesi informativa sanitaria, l’accertamento ISEE o, in passato una dichiarazione sostitutiva unica della condizione reddituale e patrimoniale (DSU).

Entro 90 giorni dalla data di ricevimento della richiesta, l’UVG esegue la valutazione sanitaria e sociale utilizzando uno strumento elaborato all’interno della Regione Piemonte: la “Cartella geriatrica”, attesta il livello della non autosufficienza, elabora il Progetto Individuale concordato con l’interessato e la sua famiglia e lo inserisce in una graduatoria d’attivazione dell’intervento.

Gli interventi a sostegno della domiciliarità contemplabili nel Piano Assistenziale Individuale (P.A.I.), si articolano in:

 

Tale sostegno si configura come erogazione monetaria riconosciuta al beneficiario o come prestazione diretta da parte di figure professionali. Le prestazioni possono essere erogate tramite:

 

I PAI hanno dei massimali di spesa previsti dalla normativa regionale, differenziati per livello d’intensità assistenziale, espressione del grado di bisogno derivante dalla non autosufficienza, valutato dall’UVG:

 

Dal 1 giugno 2021 i massimali sono stati ridotti e differenziati su due condizioni, in applicazione dei criteri previsto dal Piano Nazionale per la non autosufficienza:

 

Le quote sociali e quelle sanitarie, ciascuna corrispondente al 50% del valore del PAI possono essere rispettivamente integrate fino a € 200,00 in base all’ISEE presentato e/o con prestazioni sanitarie integrative sulla base delle valutazioni cliniche e terapeutiche.

I PAI non devono obbligatoriamente raggiungere sempre il massimale di spesa e possono altresì prevedere il loro superamento, la cui quota eccedente il massimale è però a carico dell’assistito.

I punti di forza di questo modello (in atto da più di 15 anni) sono la possibilità di trasformare il budget per i PAI in molti interventi diversi, da adattare alle necessità del paziente e della famiglia (ad esempio non solo necessariamente ore OSS o contributi in denaro), e l’elevato volume di spesa possibile al crescere del bisogno (e dunque il significativo numero di ore di tutela offerte).

 

Risultati dello studio

A giugno 2021 n. 1.845 anziani (0,82% della popolazione ultrasessantacinquenne) usufruivano di sostegni domiciliari di LA con interventi differenziati per intensità assistenziale che aumenta con l’avanzare dell’età e verosimilmente del grado di non autosufficienza.

Le donne sono prevalenti: 1.424 (77,2%) a fronte di 421 (22,8%) uomini. L’età media è di 85 anni (DS ± 7; 65-106), 87 anni tra le donne e 83 tra gli uomini.

Tra la tipologia di interventi attivati prevalgono la messa a disposizione di Assistenti familiari (33.6% dei progetti assistenziali) affiancate spesso da OSS (29.1%) che supervisionano l’efficacia del progetto per conto dell’Assistente Sociale del Comune di Torino e dell’Infermiere dell’ASL che hanno predisposto congiuntamente il Piano individuale d’Assistenza (PAI) con l’assistito e sua famiglia. A seguire l’intervento di erogazione all’anziano di un Assegno economico di cura di contribuzione al pagamento di Assistenti familiari che hanno stipulato un contratto direttamente con l’assistito (25.1%).

Il PAI può prevedere più interventi congiunti che si integrano tra loro, aumentando il grado di sostegno all’anziano non autosufficiente, come ad esempio: presenza per alcune ore della giornata dell’Assistente familiare, contemporanea attivazione di un Telesoccorso, fornitura di pasti a domicilio, ecc.

Gli interventi di LA possono durare anche per più anni (media di 2-3 anni), a volte con modifiche nell’articolazione del PAI, con un elevato impegno di spesa da parte del SSN corrispondente sempre al 50% dei valori dei progetti. L’aumentare progressivo della spesa per sostenere questa tipologia di aiuti ha richiesto di introdurre dei criteri di priorità d’inserimento, la costituzione di una lista d’attesa e un contingentamento dei nuovi assistiti proporzionale alle interruzioni dei progetti già attivi per inserimento in Strutture residenziali o decesso dell’assistito.

L’integrazione con le Cure domiciliari sanitarie multi professionali (ADI) risulta più elevata rispetto all’insieme della popolazione ultrasessantacinquenne di Torino (9,8% vs. 2,8%), ma anche rispetto al gruppo di controllo ritenuto maggiormente similare alla popolazione con LA attiva costituita da: ultrasettantacinquenni con disabilità accertata pari o superiore al 67% (6,2%). Analoga maggiore integrazione è stata rilevata anche con l’utilizzo dell’Assistenza domiciliare programmata (ADP) da parte del proprio medico di medicina generale.

 

Lo studio evidenzia che tra la popolazione anziana ultrasettantacinquenne con sostegni domiciliari di LA i ricoveri ospedalieri sono molto più ridotti rispetto al resto della popolazione: 12,6% vs. 30% della restante popolazione ≥75 aa con invalidità ≥ 67%.

La Lungassistenza domiciliare, come si evidenzia nella Tabella 6 del report allegato a questo articolo, sembrerebbe quindi esercitare una funzione protettiva (Odds ratio 0,34) e ridurre i rischi di scompenso o d’insorgenza di complicanze delle seguenti patologie con necessità di ricovero ospedaliero: broncopneumopatie croniche, altre malattie del polmone, scompenso cardiaco, ictus, aritmie, ipertensione, ischemie, cardiomiopatie, diabete mellito, fratture del femore, demenza, psicosi, etilismo, morbo di Parkinson, emiplegia, SLA, insufficienza renale cronica, ulcere da decubito, artrosi, trattamento con chemio o radioterapia.

Inoltre, qualora un ricovero ospedaliero si renda necessario, lo studio evidenzia che la LA eserciti una funzione preventiva anche sulla necessità di attivare interventi di continuità delle cure post dimissione ospedaliera (3,9 vs. 7,4%; Odds ratio 0,51).

È quindi verosimile secondo i dati empirici rilevati, che il sostegno fornito dall’Assistente famigliare, integrato da OSS e se necessario dall’Infermiere e Medico dell’ADI, supporti l’anziano negli atti di vita quotidiana, migliori le capacità dei caregivers di sorvegliare le sue condizioni cliniche prevenendo o anticipando stati di compenso delle più frequenti patologie croniche e mantenga il domicilio come ambiente tutelato idoneo per un rientro dopo un eventuale ricovero ospedaliero.

 

Conclusioni

Il sostegno alla domiciliarità attraverso interventi sociosanitari di Lungassistenza domiciliare, oltre a migliorare verosimilmente la qualità di vita degli anziani che ne usufruiscono, e ad evitare ricoveri in RSA indesiderati e inappropriati, sembra efficace anche nel prevenire ricoveri ospedalieri per quadri patologici cronici nei soggetti ultrasettantacinquenni. Inoltre, qualora il ricovero ospedaliero si renda necessario, riduce il bisogno di attivare interventi di continuità assistenziale alla dimissione, con una verosimile riduzione dei tempi stessi di ricovero.

La riduzione dei ricoveri, stimata tra il 29 e 39% degli anziani ultrasettantacinquenni in LA, corrisponde ad una popolazione tra le 256 e 412 persone, il cui ricovero medio secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità è di 6,8 giornate con un costo medio quotidiano di € 712,00. Ne consegue, per l’effetto protettivo della LA un risparmio stimato tra € 1.093.632 e 1.760.000 per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Inoltre, se il bisogno di continuità cure per gli ultrasettantacinquenni che vengono ricoverati è stimata tra il 39 e il 67% dei dimessi, il venire meno della LA, aumenterebbe il numero di anziani (tra le 100 e le 276 persone) che necessitano di continuità cure alla dimissione ospedaliera, con costi aggiuntivi per il SSN.

In conclusione, poiché in questo momento sono in preparazione riordini nazionali dell’assistenza ai non autosufficienti, converrebbe tener conto di ciò che le evidenze empiriche dimostrano: accanto agli interventi domiciliari sanitari occorrono robusti interventi di sostegno negli atti della vita quotidiana, sociosanitari, per gli effetti positivi plurimi sull’utenza e di risparmio del Servizio Sanitario Nazionale.

Fonte: https://welforum.it

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PNRR: Verso una nuova Assistenza a Domicilio

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Finalmente il disegno concreto per una nuova assistenza a domicilio

Il “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza” è un’ampia coalizione sociale nata al fine di valorizzare al meglio l’occasione storica offerta dalla riforma nazionale dell’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia, prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Il Patto ha iniziato a produrre un “Piano Nazionale di Domiciliarità Integrata per gli anziani non autosufficienti”. Si tratta di un documento che vuole essere proposta per la legge di Bilancio 2022. Il documento completo si trova qui [32].

Il Piano inizia la costruzione dei servizi domiciliari di cui l’Italia ha bisogno, utilizzando i nuovi fondi già previsti e aggiungendo gli altri necessari. Le azioni da compiere consistono nel cambiare il modello d’intervento dell’Adi (Assistenza domiciliare integrata, delle Asl), nello stanziare maggiori risorse per il Sad (Servizio di assistenza domiciliare, dei Comuni) e nel realizzare risposte integrate. Il Patto ritiene necessario rafforzare l’intera filiera dei servizi: domiciliari, semi-residenziali e residenziali. Gli investimenti del PNRR e le recenti normative concentrano i nuovi stanziamenti per la non autosufficienza sugli interventi a domicilio: il loro utilizzo è in via di definizione. Adesso è, quindi, il momento di presentare una proposta per la domiciliarità.

Le direzioni sono quelle più volte sottolineate su Welforum in particolare negli ultimi due anni. Riprendiamo i passaggi più salienti del Piano, partendo dagli obiettivi della visione di medio-lungo periodo verso cui tendere:

  1. Una sola risposta integrata. Superare l’attuale separatezza tra il Sad e l’Adi, i due servizi domiciliari pubblici esistenti in Italia.
  2. La possibilità di ricevere il giusto mix di prestazioni che la non autosufficienza richiede. Sono: i) servizi medico-infermieristico-riabilitativi, ii) sostegno nelle attività fondamentali della vita quotidiana, iii) azioni di affiancamento e supporto a familiari e badanti. Attualmente la presenza di ii) e iii) è estremamente contenuta.
  3. La possibilità di ricevere assistenza per il tempo necessario. In genere la non autosufficienza si protrae a lungo e richiede interventi frequenti. L’intensità degli interventi (numero di visite per utente) e la durata del periodo di assistenza devono, dunque, essere adeguate. Oggi, in prevalenza, intensità e durata sono troppo limitate.

 

Il Piano Domiciliarità comincia il percorso nella direzione di tali obiettivi, ampiamente condivisi a livello internazionale e assegnati dal PNRR alla riforma del settore. Per affrontare le normali difficoltà attuative di ogni processo di cambiamento ambizioso, come questo, è essenziale un approccio graduale: il Piano Domiciliarità prevede un primo pacchetto di azioni nel 2022 e il loro progressivo ampliamento nel tempo. Occorre, parimenti, avere una visione chiara della direzione di medio-lungo periodo: è quella indicata sopra, che accomuna il Piano Domiciliarità e la successiva riforma. Dopo averla varata, dunque, il Piano vi confluirà.

Il Piano intende connettere le attività degli attori responsabili della domiciliarità, a livello locale (Comuni e Asl) così come nazionale (i Ministeri competenti per la non autosufficienza, Welfare e Salute). Solo agendo su entrambi i livelli è possibile costruire risposte integrate.

 

Si prevede che i Ministeri del Welfare e della Salute costituiscano una Cabina di Regia nazionale unitaria, responsabile delle leve cruciali di governo del Piano: (i) i fondi (programmazione congiunta dell’impiego dei nuovi finanziamenti a disposizione dei due Ministeri); (ii) il loro utilizzo (definizione delle indicazioni per l’uso congiunto, da parte di Comuni e Asl, del complessivo pacchetto di risorse addizionali); (iii) la relativa verifica (responsabilità del sistema di monitoraggio dedicato).

Nei territori, il Piano Domiciliarità stabilisce che – nel 2022 – tutti gli Ambiti sociali (Comuni) e i Distretti sanitari (Asl) stipulino un accordo per realizzare insieme i requisiti organizzativi di base per un approccio integrato: (i) l’unità di valutazione multidimensionale, dove esaminare le condizioni dell’anziano e individuare gli interventi più adeguati, (ii) il progetto personalizzato integrato, che comprenda il complesso delle prestazioni pubbliche fruite e le raccordi con l’attività dei familiari e delle badanti, (iii) il responsabile del caso, punto di riferimento nel tempo per ogni soggetto coinvolto. Gli ulteriori passi necessari per costruire risposte integrate – ad esempio lo sviluppo dei punti unici di accesso – seguiranno negli anni successivi, in coerenza con l’approccio graduale del Piano.

Tali indicazioni per i territori sono già contenute in numerosi atti, ma risultano inapplicate in molte parti del Paese. È nell’attuazione, infatti, che si giocano i percorsi di cambiamento. Pertanto, il Piano Domiciliarità dedica uno sforzo particolare a costruire le condizioni per l’effettiva traduzione in pratica, a livello locale, di queste e delle altre azioni previste.

 

Occorre cambiare il modello d’intervento dell’Adi. L’Adi è il servizio domiciliare più diffuso. Lo ricevono il 6,2% degli anziani e la spesa annuale è di 1,3 miliardi. Nei prossimi anni, i fondi cresceranno notevolmente (+ 578 milioni nel 2022 a salire sino a + 1,6 miliardi nel 2026). Per utilizzarli al meglio, però, bisogna cambiare l’Adi.

Infatti, in Italia prevale un modello di Adi prestazionale: l’erogazione di singole prestazioni di natura medico-infermieristico-riabilitativa per far fronte a specifiche – e circoscritte – esigenze sanitarie, in assenza di una risposta che prenda in considerazione le molteplici dimensioni della 5 vita legate alla non autosufficienza e la loro complessità. Tale modello si riflette in livelli d’intensità e durata molto bassi. Il valore medio di ore erogate annualmente per utente è pari a 18 e il periodo della presa in carico, perlopiù, non supera i 2-3 mesi (ad es. quelli successivi ad una dimissione ospedaliera). La realtà degli anziani però, richiede interventi più ampi e articolati, e quindi, un sostegno più frequente assicurato per periodi ben più lunghi. Non a caso, la definizione di assistenza agli anziani non autosufficienti della Commissione Europea esclude l’Adi prestazionale da questo settore del welfare.

Si deve evitare di utilizzare le nuove risorse per riprodurre – su scala maggiore – le criticità attuali. Il Piano Domiciliarità, dunque, prevede nel 2022 un atto nazionale che: (i) ri-disegni l’Adi a partire dalle effettive condizioni degli anziani e, dunque, puntando agli obiettivi strategici illustrati all’inizio, e – di conseguenza – (ii) incrementi l’intensità degli interventi, cioè il numero di visite domiciliari per utente e la loro durata nel tempo (differenziandole in base alle specifiche situazioni).

 

Inoltre, vanno incrementati i fondi per il Sad. Il Sad copre solo l’1,3% degli anziani, la spesa annuale ammonta a 347 milioni e non è previsto alcun incremento significativo di risorse. Il servizio pare così destinato a rimanere residuale e l’auspicato sviluppo di risposte integrate a diventare irrealistico, a causa dell’ampliamento del divario quantitativo con l’Adi (nel 2026, ogni 100 Euro per l’Adi se ne spenderanno 12 per il Sad).

Si prevede che gli utenti crescano progressivamente: 2,6% degli anziani nel 2022, 2,9% nel 2023 e 3,3% nel 2024. A tale scopo il Piano prevede, nella Legge di Bilancio 2022, un nuovo finanziamento dedicato al Sad: +302 milioni di Euro nel 2022, +373 nel 2023 e +468 nel 2024. L’utenza, il prossimo anno, raddoppierebbe rispetto a oggi, per poi continuare a crescere progressivamente: 2,6% degli anziani nel 2022, 2,9% nel 2023 e 3,3% nel 2024. Il finanziamento sarebbe legato al riconoscimento del Sad come livello essenziale delle prestazioni, in modo da strutturarne la presenza nei territori in modo stabile. Si assicurerebbe così uno standard percentuale minimo di anziani raggiunti in tutto il Paese e si garantirebbero alle Regioni che già lo rispettano risorse per incrementare ulteriormente l’offerta.

 

Il Piano prevede anche di ripensare il modello d’intervento. Oggi prevale quello per anziani disagiati: la sola non autosufficienza generalmente non basta per poter ricevere questo servizio, utilizzato per rispondere a situazioni la cui complessità dipende anche da reti familiari particolarmente carenti e/o da ridotte disponibilità economiche dell’anziano. La prospettiva, invece, è di aprire progressivamente il Sad agli anziani non autosufficienti in quanto tali e alle loro esigenze.

Sia nel Sad che nell’Adi, dunque, si intende compiere un’operazione simile: avviare un processo di superamento del modello d’intervento oggi prevalente (rispettivamente del disagio e prestazionale) per meglio focalizzare i servizi sulla reale situazione di anziani e famiglie, nella direzione degli obiettivi presentati all’inizio. Tale percorso convergente crea le condizioni per realizzare risposte integrate.

Fonte: https://welforum.it

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Assistenza a domicilio: cosa può cambiare con il PNRR

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Disegno concreto per una nuova assistenza a domicilio

Il “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza” è un’ampia coalizione sociale nata al fine di valorizzare al meglio l’occasione storica offerta dalla riforma nazionale dell’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia, prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Il Patto ha iniziato a produrre un “Piano Nazionale di Domiciliarità Integrata per gli anziani non autosufficienti”. Si tratta di un documento che vuole essere proposta per la legge di Bilancio 2022.   (Il documento completo si trova qui [32]).

Il Piano inizia la costruzione dei servizi domiciliari di cui l’Italia ha bisogno, utilizzando i nuovi fondi già previsti e aggiungendo gli altri necessari. Le azioni da compiere consistono nel cambiare il modello d’intervento dell’Adi (Assistenza domiciliare integrata, delle Asl), nello stanziare maggiori risorse per il Sad (Servizio di assistenza domiciliare, dei Comuni) e nel realizzare risposte integrate. Il Patto ritiene necessario rafforzare l’intera filiera dei servizi: domiciliari, semi-residenziali e residenziali. Gli investimenti del PNRR e le recenti normative concentrano i nuovi stanziamenti per la non autosufficienza sugli interventi a domicilio: il loro utilizzo è in via di definizione. Adesso è, quindi, il momento di presentare una proposta per la domiciliarità.

Le direzioni sono quelle più volte sottolineate su Welforum in particolare negli ultimi due anni. Riprendiamo i passaggi più salienti del Piano, partendo dagli obiettivi della visione di medio-lungo periodo verso cui tendere:

  1. Una sola risposta integrata. Superare l’attuale separatezza tra il Sad e l’Adi, i due servizi domiciliari pubblici esistenti in Italia.
  2. La possibilità di ricevere il giusto mix di prestazioni che la non autosufficienza richiede. Sono: i) servizi medico-infermieristico-riabilitativi, ii) sostegno nelle attività fondamentali della vita quotidiana, iii) azioni di affiancamento e supporto a familiari e badanti. Attualmente la presenza di ii) e iii) è estremamente contenuta.
  3. La possibilità di ricevere assistenza per il tempo necessario. In genere la non autosufficienza si protrae a lungo e richiede interventi frequenti. L’intensità degli interventi (numero di visite per utente) e la durata del periodo di assistenza devono, dunque, essere adeguate. Oggi, in prevalenza, intensità e durata sono troppo limitate.

Il Piano Domiciliarità comincia il percorso nella direzione di tali obiettivi, ampiamente condivisi a livello internazionale e assegnati dal PNRR alla riforma del settore. Per affrontare le normali difficoltà attuative di ogni processo di cambiamento ambizioso, come questo, è essenziale un approccio graduale: il Piano Domiciliarità prevede un primo pacchetto di azioni nel 2022 e il loro progressivo ampliamento nel tempo. Occorre, parimenti, avere una visione chiara della direzione di medio-lungo periodo: è quella indicata sopra, che accomuna il Piano Domiciliarità e la successiva riforma. Dopo averla varata, dunque, il Piano vi confluirà.

Il Piano intende connettere le attività degli attori responsabili della domiciliarità, a livello locale (Comuni e Asl) così come nazionale (i Ministeri competenti per la non autosufficienza, Welfare e Salute). Solo agendo su entrambi i livelli è possibile costruire risposte integrate.

Si prevede che i Ministeri del Welfare e della Salute costituiscano una Cabina di Regia nazionale unitaria, responsabile delle leve cruciali di governo del Piano: (i) i fondi (programmazione congiunta dell’impiego dei nuovi finanziamenti a disposizione dei due Ministeri); (ii) il loro utilizzo (definizione delle indicazioni per l’uso congiunto, da parte di Comuni e Asl, del complessivo pacchetto di risorse addizionali); (iii) la relativa verifica (responsabilità del sistema di monitoraggio dedicato).

Nei territori, il Piano Domiciliarità stabilisce che – nel 2022 – tutti gli Ambiti sociali (Comuni) e i Distretti sanitari (Asl) stipulino un accordo per realizzare insieme i requisiti organizzativi di base per un approccio integrato: (i) l’unità di valutazione multidimensionale, dove esaminare le condizioni dell’anziano e individuare gli interventi più adeguati, (ii) il progetto personalizzato integrato, che comprenda il complesso delle prestazioni pubbliche fruite e le raccordi con l’attività dei familiari e delle badanti, (iii) il responsabile del caso, punto di riferimento nel tempo per ogni soggetto coinvolto. Gli ulteriori passi necessari per costruire risposte integrate – ad esempio lo sviluppo dei punti unici di accesso – seguiranno negli anni successivi, in coerenza con l’approccio graduale del Piano.

Tali indicazioni per i territori sono già contenute in numerosi atti, ma risultano inapplicate in molte parti del Paese. È nell’attuazione, infatti, che si giocano i percorsi di cambiamento. Pertanto, il Piano Domiciliarità dedica uno sforzo particolare a costruire le condizioni per l’effettiva traduzione in pratica, a livello locale, di queste e delle altre azioni previste.

 

Occorre cambiare il modello d’intervento dell’Adi.  L’Adi è il servizio domiciliare più diffuso. Lo ricevono il 6,2% degli anziani e la spesa annuale è di 1,3 miliardi. Nei prossimi anni, i fondi cresceranno notevolmente (+ 578 milioni nel 2022 a salire sino a + 1,6 miliardi nel 2026). Per utilizzarli al meglio, però, bisogna cambiare l’Adi.

Infatti, in Italia prevale un modello di Adi prestazionale: l’erogazione di singole prestazioni di natura medico-infermieristico-riabilitativa per far fronte a specifiche – e circoscritte – esigenze sanitarie, in assenza di una risposta che prenda in considerazione le molteplici dimensioni della 5 vita legate alla non autosufficienza e la loro complessità. Tale modello si riflette in livelli d’intensità e durata molto bassi. Il valore medio di ore erogate annualmente per utente è pari a 18 e il periodo della presa in carico, perlopiù, non supera i 2-3 mesi (ad es. quelli successivi ad una dimissione ospedaliera). La realtà degli anziani però, richiede interventi più ampi e articolati, e quindi, un sostegno più frequente assicurato per periodi ben più lunghi. Non a caso, la definizione di assistenza agli anziani non autosufficienti della Commissione Europea esclude l’Adi prestazionale da questo settore del welfare.

Si deve evitare di utilizzare le nuove risorse per riprodurre – su scala maggiore – le criticità attuali. Il Piano Domiciliarità, dunque, prevede nel 2022 un atto nazionale che: (i) ri-disegni l’Adi a partire dalle effettive condizioni degli anziani e, dunque, puntando agli obiettivi strategici illustrati all’inizio, e – di conseguenza – (ii) incrementi l’intensità degli interventi, cioè il numero di visite domiciliari per utente e la loro durata nel tempo (differenziandole in base alle specifiche situazioni).

 

Inoltre, vanno incrementati i fondi per il Sad. Il Sad copre solo l’1,3% degli anziani, la spesa annuale ammonta a 347 milioni e non è previsto alcun incremento significativo di risorse. Il servizio pare così destinato a rimanere residuale e l’auspicato sviluppo di risposte integrate a diventare irrealistico, a causa dell’ampliamento del divario quantitativo con l’Adi (nel 2026, ogni 100 Euro per l’Adi se ne spenderanno 12 per il Sad).

Si prevede che gli utenti crescano progressivamente: 2,6% degli anziani nel 2022, 2,9% nel 2023 e 3,3% nel 2024. A tale scopo il Piano prevede, nella Legge di Bilancio 2022, un nuovo finanziamento dedicato al Sad: +302 milioni di Euro nel 2022, +373 nel 2023 e +468 nel 2024. L’utenza, il prossimo anno, raddoppierebbe rispetto a oggi, per poi continuare a crescere progressivamente: 2,6% degli anziani nel 2022, 2,9% nel 2023 e 3,3% nel 2024. Il finanziamento sarebbe legato al riconoscimento del Sad come livello essenziale delle prestazioni, in modo da strutturarne la presenza nei territori in modo stabile. Si assicurerebbe così uno standard percentuale minimo di anziani raggiunti in tutto il Paese e si garantirebbero alle Regioni che già lo rispettano risorse per incrementare ulteriormente l’offerta.

 

Il Piano prevede anche di ripensare il modello d’intervento. Oggi prevale quello per anziani disagiati: la sola non autosufficienza generalmente non basta per poter ricevere questo servizio, utilizzato per rispondere a situazioni la cui complessità dipende anche da reti familiari particolarmente carenti e/o da ridotte disponibilità economiche dell’anziano. La prospettiva, invece, è di aprire progressivamente il Sad agli anziani non autosufficienti in quanto tali e alle loro esigenze.

Sia nel Sad che nell’Adi, dunque, si intende compiere un’operazione simile: avviare un processo di superamento del modello d’intervento oggi prevalente (rispettivamente del disagio e prestazionale) per meglio focalizzare i servizi sulla reale situazione di anziani e famiglie, nella direzione degli obiettivi presentati all’inizio. Tale percorso convergente crea le condizioni per realizzare risposte integrate.

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Case della Comunità: Cosa prevede il PNRR

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Le Case della Comunità: che cosa sono?

Le Case della Comunità sono strutture sanitarie, promotrici di un modello di intervento multidisciplinare, nonché luoghi privilegiati per la progettazione di interventi di carattere sociale e di integrazione sociosanitaria. La sede della Casa della Comunità deve essere visibile e facilmente accessibile per la comunità di riferimento perché è il luogo dove il cittadino può trovare una risposta adeguata alle diverse esigenze sanitarie o sociosanitarie.

In queste strutture, al fine di poter fornire tutti i servizi sanitari di base, il Medico di Medicina Generale e il Pediatri di Libera lavorano in équipe, in collaborazione con gli infermieri di famiglia, gli specialisti ambulatoriali e gli altri professionisti sanitari quali logopedisti, fisioterapisti, dietologi, tecnici della riabilitazione e altri. La presenza degli assistenti sociali nelle Case della Comunità rafforzerà il ruolo dei servizi sociali territoriali nonché una loro maggiore integrazione con la componente sanitaria assistenziale.

La figura chiave nella Casa della Comunità  sarà l’infermiere di famiglia, figura già introdotta dal Decreto Legge n. 34/2020 che, grazie alle sue conoscenze e competenze specialistiche nel settore delle cure primarie e della sanità pubblica, diventa il professionista responsabile dei processi infermieristici in famiglia e Comunità.

 

Secondo il PNRR, la Casa della Comunità diventerà lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti sul territorio, in particolare ai malati cronici.

La Casa della Comunità è finalizzata a costituire il punto di riferimento continuativo per la popolazione, anche attraverso un’infrastruttura informatica, un punto prelievi, la strumentazione polispecialistica, e ha il fine di garantire la promozione, la prevenzione della salute e la presa in carico della comunità di riferimento. Tra i servizi inclusi è previsto, in particolare, il punto unico di accesso (PUA) per le valutazioni multidimensionali (servizi sociosanitari) e i servizi dedicati alla tutela della donna, del bambino e dei nuclei familiari secondo un approccio di medicina di genere. Potranno inoltre essere ospitati servizi sociali e assistenziali rivolti prioritariamente alle persone anziani e fragili, variamente organizzati a seconda delle caratteristiche della comunità specifica.

L’investimento prevede l’attivazione di 1.288 Case della Comunità entro la metà del 2026, che potranno utilizzare sia strutture già esistenti sia nuove (Cfr. Tab. 1). Entro il primo trimestre del 2022 è prevista la definizione di un documento di programmazione per l’implementazione delle Case della Comunità.

 

Tab. 1 – Case della Comunità dal PNRR
Regioni Case della Comunità previste
Piemonte 93
Valle d’Aosta 3
Lombardia 216
PA Bolzano 11
PA Trento 12
Veneto 105
Friuli Venezia Giulia 26
Liguria 33
Emilia Romagna 95
Toscana 80
Umbria 19
Marche 32
Lazio 125
Abruzzo 28
Molise 6
Campania 124
Puglia 86
Basilicata 12
Calabria 41
Sicilia 106
Sardegna 35
Italia 1.288

Fonte: nostra elaborazione della documentazione del Governo inviata all’UE a corredo del PNRR

Dimensioni e costo delle strutture

Il costo complessivo dell’investimento è stimato in 2 miliardi di euro. Ogni Casa della comunità costerà a livello strutturale e tecnologico circa 1,6 mln di euro. Ogni Casa della Comunità sarà dotata di 10-15 sale di consulenza ed esame, punto di prelievo, servizi diagnostici di base (es. ecografia, elettrocardiografia, radiologia, spirometria, ecc.), nonché un innovativo sistema di interconnessione dati. Tenendo conto delle esperienze precedenti, si stima una spesa complessiva di 351.098.496 euro per la parte tecnologica delle 1.288 Case della Comunità.

Il personale

All’interno della Casa della Comunità vi saranno 5 unità di personale amministrativo, 10 medici di medicina generale e 8 infermieri. Nel complesso serviranno 6.440 amministrativi e 10.091 infermieri in più. Queste figure professionali saranno implementate quando le Case della Comunità saranno diventate operative a pieno titolo, e quindi nel 2027 per cui il PNRR non prevede risorse per il loro finanziamento  dato che il suo effetto si esaurisce nel 2026.

Purtroppo, però, le risorse che dovranno finanziare l’assunzione di 16.531 persone dal 2027 sono molto incerte. Viene indicata la fonte di finanziamento solo di 2.363 infermieri (D.L. 34/2020 art.1 c.5) per 94,5 milioni di euro. Per il resto del personale (14.168) il cui costo stimato è di 567 milioni di euro non c’è finanziamento perché le risorse necessarie saranno reperite attraverso una riorganizzazione dell’assistenza sanitaria che dovrebbe produrre i risparmi necessari (Cfr. Tab. 2). Ma le proposte riorganizzative proposte (riduzione ricoveri inappropriati, riduzione del consumo dei farmaci, riduzione accessi inappropriati al pronto soccorso, ecc.) molto difficilmente renderanno disponibili gli stanziamenti necessari per questo intervento (e per gli altri previsti dal PNRR con questa modalità di finanziamento).

 

Tab. 2 – Costi del personale delle Case della Comunità
Descrizione del personale Unità di personale per struttura Incremento di costo unitario (€) Unità di personale totali Costi addizionali (€) Fonte di finanziamento
Amministrativi 5 6.440

Nessun onere aggiuntivo per il SSN

a causa del risultato della riorganizzazione del personale delle cure primarie

Medici di medicina generale MMG 10 12.880
Infermieri di famiglia 6 7.728  
2 40.000 2.363 94.500.000 D.L. 34/2020 art.1 c.5
TOTALE 94.500.000  

Fonte: documenti del Governo italiano inviati all’UE a corredo del PNRR

Inoltre, per garantire la partecipazione di 12.880 Medici di medicina generale all’attività interna delle Case della Comunità occorre creare le condizioni per una loro adesione massiccia al progetto altrimenti questo fallisce, il che probabilmente potrebbe richiedere una nuova convenzione con possibili oneri ulteriori.

Prospettive e criticità

La previsione delle Case della Comunità rappresenta un tentativo di riformare le cure primarie e quindi da questo punto di vista merita grande attenzione. Ciononostante, rimane insufficiente il lavoro di ricollocazione e ridefinizione delle sue competenze all’interno dell’attività del distretto sanitario. Ciò che è chiaro è che dovrà essere il luogo privilegiato del lavoro associato dei Medici di medicina generale ma per il resto il ruolo delle Case della Comunità va meglio definito anche rispetto alle funzioni del resto del personale impiegato. L’idea mantiene comunque delle potenzialità importanti per cui va sostenuta insieme alla necessità  di una sua approfondita ridefinizione organizzativa e funzionale.

L’altra criticità delle Case della Comunità è relativa al personale della struttura. Le assunzioni del personale non sono previste se non a partire dal 2027 per cui, per tutto il periodo di operatività del Recovery found, non saranno attivate.

Dal 2027 il finanziamento del personale rimane molto incerto dato che dei 661 milioni necessari per tutte le assunzioni previste viene indicata la copertura finanziaria solo di 94,5 milioni. Per il resto è previsto che il finanziamento necessario si ricavi da riorganizzazioni sanitarie  che, per le loro caratteristiche,  molto difficilmente metteranno a disposizione  le risorse necessarie per le assunzioni previste.

In sostanza dunque, da quel che si legge nel PNNR, da qui al 2026 verranno realizzate le strutture delle Case della Comunità ma queste non verranno attivate prima del 2027 perché non si è data copertura agli oneri del personale necessario. Ci sono dunque delle criticità ma c’è tutto il tempo per rimediare basta essere consapevoli dei nodi da affrontare.

Fonte: https://welforum.it/

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Fondo per caregiver familiare

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Fondo per caregiver familiare

Con un emendamento alla Legge di Bilancio 2018, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 29 dicembre scorso, viene istituito, presso il Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, un fondo per chi assiste familiari anziani o affetti da gravi malattie.
Si tratta di quello che la normativa definisce fondo per il sostegno del titolo di cura e di assistenza del caregiver familiare.
Con l’emendamento firmato da Laura Bignami e approvato all’unanimità, viene dunque riconosciuto ufficialmente il ruolo del caregiver familiare, quella figura che si dedica all’assistenza agli anziani non autosufficienti, ai malati, e alle persone con disabilità, in casa e in maniera non professionale.
Si è voluto dunque riconoscere l’importanza del ruolo svolto da coloro che, a lungo termine, si prendono cura dei propri cari disabili o affetti da patologie croniche e degenerative.

Fondo sostegno per caregivers
La dotazione messa a disposizione tramite il fondo è di 20.000 euro per gli anni 2018, 2019 e 2020; nel complesso siamo di fronte a 60.000 euro, destinati a fornire una copertura finanziaria per interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell’attività assistenziale svolta dal caregiver familiare.
Si tratta di una cifra che, se apparentemente può sembrare congrua, di fatto è abbastanza irrisoria se si tiene conto della vasta platea di persone che ogni giorno e a tempo pieno accudiscono anziani e disabili.

Dopo l’approvazione del fondo di assistenza, avvenuta in maniera definitiva con la Legge di Bilancio, sarà compito del Ministero del Lavoro, entro il termine di 90 giorni dall’entrata in vigore, definire, tramite decreto attuativo, le modalità effettive e le misure di sostegno a favore di chi assiste anziani, invalidi o malati.

Il riconoscimento formale è stato sicuramente un primo passo fondamentale ma sarà ancor più necessario rendere concrete le misure previste, soprattutto tenendo conto delle situazioni più gravi e difficili in cui versano molte persone.

Stare accanto a una persona anziana o malata è un compito che può assorbire tutte le proprie energie fino alla compromissione della salute.

A fronte della nuova normativa, l’Italia non sarà più uno dei Paesi dell’Unione Europea a essere privo di una legislazione specifica in materia. L’Italia potrà così allinearsi a quei Paesi come la Spagna, la Francia, la Gran Bretagna, la Romania, la Polonia o la Grecia dove da tempo chi assiste i propri cari riceve delle tutele. Familiari, solitamente donne, che senza un ruolo ben definito hanno fino ad oggi svolto una attività quotidiana pressoché invisibile a livello sociale.

Di seguito forniamo maggiori dettagli per far chiarezza su cosa è stato previsto con l’emendamento alla Legge di Bilancio 2018 e quali sono le misure introdotte.
Benché si tratti ancora di un provvedimento che non apporta delle modifiche alle leggi in vigore, si apre la strada ad importanti iniziative e modifiche in materia di caregiver familiare.

Assistenza anziani in casa: chi è il caregiver familiare

Chi è il caregiver familiare, cosa prevede il testo della Legge di Bilancio, quali sono le persone assistite che rientrano nell’ambito di applicazione della normativa e quali le misure previste a favore del familiare?

Caregivers familiare
Il caregiver familiare è una persona che assiste volontariamente e quotidianamente un parente non autosufficiente. Egli si occupa delle cure primarie della persona bisognosa che non è in grado di provvedere a se stessa, come lavarsi, vestirsi, cucinare.
Inoltre, controlla costantemente l’anziano o il malato evitando che si metta in situazioni di pericolo e si interessa a tutte le pratiche amministrative relative alla sua persona disabile.
Sono molte le situazioni complicate da dover affrontare giornalmente e tanti i motivi di ansia, preoccupazione e senso di inadeguatezza.
La nuova normativa è stata prevista per dare voce a queste molteplici esigenze. Vediamo di cosa si tratta.

L’articolo 30 bis, comma 2 dell’emendamento alla Legge di Bilancio afferma che:

Si definisce caregiver familiare la persona che assiste e si prende cura del coniuge, di una delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 10 maggio 2016, n. 76, di un familiare di un affine entro il secondo grado, ovvero nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, anche di un familiare entro il terzo grado, che a causa di malattia, infermità o anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata continuativa ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 194, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18. Comma 2, art.30 bis emendamento Legge di Bilancio

Secondo il testo di legge, a beneficiare del sostegno e delle misure finanziate dal fondo per il caregiver familiare sono coloro che si prendono cura delle persone sotto indicate:
– il coniuge;
– l’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso;
– il convivente di fatto ai sensi della legge 10 maggio 2016, n. 76;
– un affine entro i secondo grado (vi rientrano dunque anche i nipoti);
– nei casi di cui all’art. 33 comma 3 della Legge 104/92, un familiare entro il terzo grado che a seguito di malattia, infermità (anche cronica o degenerativa) non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé;
– un familiare riconosciuto invalido e bisognoso di assistenza globale e continuativa ai sensi dell’articolo 3, comma 3 della Legge 104/92 o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18.

Questo non significa che tutte le persone assistite ai sensi della Legge 104/92 avranno lo stesso trattamento. Saranno necessarie future leggi per definire i requisiti di accesso ai benefici e i limiti applicativi della normativa.

Caregiver familiare: le riforme future

Sono tre i disegni di legge all’attenzione dei parlamentari che dovrebbero dare origine a un testo unico idoneo a disciplinare la materia relativa al sostegno di coloro che effettuano assistenza domiciliare ai propri parenti.
Molto resta ancora da fare e il fondo di assistenzaanziani è solo un punto di partenza.
Saranno i successivi interventi legislativi a prevedere in maniera puntuale, anche al fine di evitare gli abusi, quelli che saranno gli ambiti di utilizzo del fondo e i diritti del caregiver familiare.

Assistenza domiciliare anziani
Tra le misure in cantiere:
– bonus disabile di 1900 euro da erogare a titolo di rimborso spese per chi assiste un familiare over 80;
– bonus disabile sotto forma di detrazione fiscale per chi assiste un familiare disabile, con età pari o superiore a ottanta anni entro il terzo grado di parentela;

Altre misure hanno lo scopo di agevolare l’accesso al lavoro molto difficile per chi ha un familiare in condizione di disabilità. Si pensi a quelle tutele che consentano di riconoscere il valore e la fatica di prendersi cura di un familiare svolgendo a un tempo una propria attività lavorativa:
– possibilità di lavoro part time o in modalità telelavoro al fine di consentire al caregiver di conciliare le esigenze lavorative con quelle di cura e assistenza del familiare;

– incentivi per il datore di lavoro in caso di assunzione di un caregiver;

– accesso all’Apesocial per i lavoratori che assumono il ruolo di caregiver;

– nuovi contributi previdenziali figurativi per la pensione;

– tutela per malattie e assicurazione del caragiver;

– ferie solidali per i caregiver;

– permessi lavorativi ai sensi della Legge 104/92 per consentire al caregiver familiare di conciliare il lavoro con l’assistenza persone anziane;

– detrazione del 50% delle spese sanitarie sostenute per il familiare che viene assistito con un tetto massimo di spesa pari a 1000 euro all’anno.

FONTE: https://www.lavorincasa.it/

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