Il 21 settembre ricorre la giornata mondiale dell’Alzheimer (Alzheimer’s Disease), una sindrome neurodegenerativa, la cui incidenza è in aumento e il cui decorso post-diagnosi può protrarsi fino a dieci anni, secondo l’Istituto superire di sanità, e che ha un rilevante impatto anche economico e sociale sul sistema sanitario. Posto che la ricerca scientifica necessita di ulteriori approfondimenti per una conoscenza approfondita di questo fenomeno ancora da debellare, vi sono degli accorgimenti per prevenire il problema e lenire la sintomatologia, nonché progetti palliativi innovativi.
Le dimensioni e le conseguenze del fenomeno
Nel mondo le persone colpite da demenza sono 50 milioni, ogni 3 secondo se ne registra un nuovo caso e si stima che, entro il 2050, ve ne saranno 152 milioni (ADI, 2018). In Italia, tra i 25 principali gruppi di cause di morte, le sindromi di demenza e di Alzheimer sono passate, in 10 anni, dalla nona alla sesta posizione in graduatoria e il numero di malati è raddoppiato da 14.685 nel 2003 e 26.600 nel 2014. (Istat, 2017).
L’incremento citato rispecchia il mutamento e l’invecchiamento della struttura per età della popolazione. Si tratta infatti di un fenomeno positivamente correlato con l’aumento dell’aspettativa di vita, posto che solo la sindrome dell’Alzheimer colpisce da terzo alla metà delle persone di oltre 85 anni (Accademie Nazionali, 2017). In merito, poi, dato che i decessi in età anziana conseguono a quadri patologici complessi, lo studio delle relazioni tra le cause menzionate nei certificati di morte sta superando i limiti dello studio della mortalità basato sulla sola causa iniziale e mostra come le malattie mentali e del sistema nervoso sono, in effetti, un sub-sistema molto denso assieme alle condizioni di immobilità e confinamento e alle conseguenti malnutrizione, decubito e soffocamento da elementi esterni (Egidi et al., 2018). Chi è affetto da Alzheimer non è difatti in grado di autogestirsi né di auto tutelarsi e, quando non è nemmeno in grado di esprimere esigenze fondamentali come la fame, la sete e il freddo o il caldo, in assenza di prestazioni diagnostiche e terapeutiche è destinato a morire in 5-6 giorni (Santanera, 2018).
Le proposte prioritarie sul tema riguardano la comprensione dei processi molecolari, genetici e cellulari alla base della patologia, l’accesso ai trial clinici e ai test cognitivi per diagnosi precoci e il miglioramento dei programmi sociali e tecnologici integrativi alle cure mediche (Accademie Nazionali, op. cit.). Una mappatura delle Strutture sanitarie residenziali (SR) pubbliche o convenzionate presenti in Italia per la cura e l’assistenza delle demenze ne registra 729, con un’ampia differenziazione territoriale che ne colloca il 51% al Nord, il 35% al Centro e il 14% al Sud e nelle Isole (Istituto Superiore di Sanità, 2017). Tra gli studi osservazionali attivati nei centri citati, vi è ad esempio il progetto Interceptor, che, lanciato alla fine del 2017 per una durata di 3 anni, coinvolge 400 pazienti di età compresa tra 50 e 85 anni, allo scopo di valutare diversi marcatori (come test neuropsicologici, dosaggio delle proteine, tomografia ad emissione di positroni, analisi genetica, tracciato elettroencefalografico, risonanza magnetica volumetrca) e stabilire così i più specifici a predire la conversione del lieve declino cognitivo in Alzheimer.
Complessivamente, l’affinamento scientifico delle capacità diagnostiche e terapeutiche, la maggiore efficienza dell’organizzazione sanitaria, una accresciuta cultura della salute con maggiore prevenzione e controllo e stili di vita complessivamente più sani comportano che la frontiera della morbosità venga spostata in avanti (Filippi, 2014), confermando la tesi della Compression of Morbidy (Fries, 2003). Arricchire quindi la conoscenza sul tema offre la possibilità di migliorare le condizioni di vita degli anziani agendo sull’insieme di elementi che ne peggiorano invece la qualità e mappare gli elementi connessi alla sindrome consente di definire più correttamente l’orientamento da dare al sistema di cura e di assistenza nazionale.
I costi connessi alla sindrome
Tenuto conto del tema della sostenibilità del SSN, parlando di patologie, una parte del discorso va rivolta anche necessariamente alla definizione dei costi in servizi di cura e di assistenza, che sono assunti dall’assistito, dalla famiglia e dalla collettività e possono essere diretti, se inerenti le spese direttamente monetizzabili sostenute per l’acquisto di beni o servizi, oppure indiretti, in termini di perdita di risorse altrimenti acquistabili. Il costo medio annuo per paziente (CMAP) stimato, comprensivo dei costi detti, è paria 70.587 euro, di cui il 27% (18.941 euro) afferisce ai costi diretti e il 73% (51.645 euro) ai costi indiretti.
Tra i costi diretti, la quota più significativa è rappresentata da quelli legati all’assistenza informale (60,1%) totalmente a carico delle famiglie. Le spese sanitarie legate agli accessi e ai ricoveri in strutture ospedaliere, a carico del SSN, rappresentano il 5,1%, mentre le spese per l’accesso ai servizi socio-sanitari costituiscono il 19,1% dei costi e sono articolate con quote più consistenti (70% e oltre) a carico del SSN per l’assistenza formale; le attività ambulatoriali (visite, analisi e attrezzature e ausili sanitari) rappresentano il 7,7% del totale dei costi diretti e risultano principalmente a carico del SSN (78,3%); le spese per i farmaci (3,9% del totale) se specifiche vanno distinte tra quelle relative a farmaci specifici per Alzheimer, ricadono principalmente sul SSN altrimenti sono ripartite tra famiglie e SSN. Gli esborsi per le modifiche dell’abitazione sono sostanzialmente a carico delle famiglie e rappresentano il 3,1% dei costi diretti. I costi indiretti sono per definizione a carico della collettività e vengono stimati monetizzando gli oneri di assistenza che pesano sul caregiver, che rappresentano il 97% circa del totale dei costi indiretti, a cui si aggiunge anche la piccola quota rappresentata dai mancati redditi di lavoro dei pazienti (Fondazione Censis, 2016).
I dati riportati restituiscono l’elevata onerosità correlata alla sindrome in tema, economica, ma anche psicologica, che grava sulle famiglie per far fronte alle esigenze del congiunto colpito dall’Alzheimer e che rende urgente l’adeguamento e il potenziamento degli interventi e dell’offerta di servizi.
Prevenzione e misure palliative
Dal punto di vista della prevenzione, utili indicazioni operative sono presenti nel piano d’azione globale adottato nel 2017 dall’OMS, secondo cui i rischi che le politiche sanitarie dovrebbero prendere in considerazione come prioritari sono: ipertensione arteriosa, disturbi cardiocircolatori, sindromi metaboliche, alcoolismo, tabagismo, depressione, insufficiente attività fisica, isolamento sociale, diminuzione e perdita dell’udito e basso livello culturale. Un recente volume di ricerca pubblicato da Raffaello Cortina Editore, La mente fragile. L’enigma dell’Alzheimer di Arnaldo Benini, in modo scientificamente accurato ma anche accessibile al grande pubblico, aiuta a comprendere il fenomeno dell’invecchiamento mentale e della demenza senile e promuove la prevenzione generica come particolarmente efficace a prevenire l’Alzheimer.
Quando invece la patologia si manifesta e la prevenzione non ha più presa, invece, come si può intervenire?
In questi casi, posto che, ad oggi, non vi sono trattamenti che arrestino o rallentino il decorso della sindrome demenziale, sembrano sortire un effetto positivo le misure palliative, secondo il motto to care when there is no cure (prendersi cura quando non si può guarire), verso le quali le recenti pubblicazioni del settore stanno riservando grande attenzione. Infatti, i “provvedimenti palliativi [..] possono essere attuati in famiglia o in strutture protette, a seconda dello stato del paziente nonché delle condizioni familiari ed economiche. Le misure palliative non sono cure, ma aiutano gli ammalati a vivere meglio e a utilizzare il più a lungo possibile le capacità mentali e fisiche residue. Il principio dell’assistenza palliativa è quello di lasciar vivere la persona come il cervello alterato le permette, senza pretendere quel che non può più fare o capire e senza ferirne la dignità” (Benini, 2018, pp. 83-84).
Villaggi e quartieri dedicati
Per promuovere la normalità nella vita delle persone affette da Alzheimer, sono in atto sperimentazioni di quartieri abitati da pazienti e operatori. Hogewey in Olanda ne è un esempio a livello europeo dal 1993 e, anche in Italia, vi sono dei primi casi, come il Villaggio dell’Alzheimer della Fondazione Roma che, nel quartiere Buffalotta, ospita gratuitamente 100 malati in 14 case riunite attorno ad una piazza e collegate a servizi di uso quotidiano, tra cui un bar e un minimercato.
Anche in Lombardia sono stati attivati interventi di questo tipo, come il Paese Ritrovato, inaugurato da pochi mesi dalla Cooperativa La Meridiana di Monza. Si tratta di un’area di 14.000 mq che ospita 64 pazienti residenti in 8 appartamenti, con camere singole ma anche spazi di soggiorno e cucina comuni, dove è possibile mantenere contatti esterni e forme di socialità, e bagni assistiti. Il luogo, non sanitario ma auto-sufficiente, grazie alla presenza di negozi, consente ai degenti di muoversi in modo protetto ma autonomo.
Complessivamente questa sperimentazione è molto promettente e si basa sulle competenze e sulle capacità progettuali degli stakeholder locali e viene monitorato da una rete di istituzioni territoriali, tra cui il Politecnico di Milano e l’Università LIUC di Castellanza, che hanno contribuito alla progettazione degli arredi e delle tecnologie assistive, nonché dei modelli di misurazione dell’efficacia terapeutica (Pantrini, 2017).
Alcune considerazioni
La demenza senile è una sindrome grave, progressiva e inabilitante, che riduce la qualità della vita dei pazienti, il cui numero è in crescita a seguito dell’aumento dell’attesa di vita, e comporta dolore e difficoltà per i familiari che si trovano loro malgrado ad averne esperienza diretta. Al di là dell’incidenza genetica, si tratta di un fenomeno, per un certo verso, evitabile, alla luce delle evidenze che il modo in cui certi geni agiscono dipende dall’ambiente circostante, per cui la prevenzione che sembra particolarmente efficace è, di fatto, quella generica. Un certo declino delle capacità cognitive associato all’avanzare dell’età è normale, ma può essere arrestato con correzioni nello stile di vita, evitando allarmismi ma rapportandosi con i rischi, in modo complementare e fattivo, prima che la malattia insorga. A diagnosi avvenuta, ugualmente, soccorrono interventi integrati che pongano la persona fragile all’interno di un luogo protetto in cui possa esprimersi, ritrovando una certa quotidianità e riscoprendo gli effetti benefici delle relazioni. L’auspicio è quindi che, alle prime sperimentazioni di habitat terapeutici innovativi come quello descritto nell’articolo, ne seguano altre al fine di definire buone pratiche applicabili anche in Italia.
Fonte:https://welforum.it/